PA, quando è possibile annullare l’atto d’ufficio oltre il termine
consiglio-di-stato-sentenza-27062018-n-3940
CONSIGLIO DI STATO
Sezione Quinta
Sentenza 1° febbraio – 27 giugno 2018, n. 3940
sul ricorso numero di registro generale 4146 del 2017, proposto da
P. Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Raffaele Izzo e Aldo Fera, con domicilio eletto presso lo studio Raffaele Izzo in Roma, Lungotevere Marzio, 3;
contro
Città di Nettuno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Antonino Galletti, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, piazzale Don G. Minzoni, 9;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 3215/2017, resa tra le parti
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Città di Nettuno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 1 febbraio 2018 il Cons. Giovanni Grasso e uditi per le parti gli avvocati Izzo, Fera e Clarizia su delega di Galletti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.FATTO
1.- Con atto di appello notificato nei tempi e nelle forme di rito, P. s.r.l., come in atti rappresentata e difesa:
a) premetteva, in fatto, che con delibere di Giunta municipale n. 33 del 29.03.2011 e di Consiglio comunale n. 35 del 30.06.2011, il Comune di Nettuno aveva approvato il Piano triennale delle OO.PP. 2011/2013 e l’elenco annuale OO.PP. 2011, ivi inserendo la “realizzazione di un parcheggio a rotazione a Piazzale Berlinguer”, da realizzarsi attraverso l’istituto della finanza di progetto, ai sensi dell’art. 153 dell’allora vigente d.lgs. 163/2006;
b) aggiungeva che, a conclusione delle attività preliminari necessarie per avviare la procedura di affidamento, con determinazione dirigenziale n. 248 in data 14.10.2011, erano stati approvati l’avviso di gara, ai sensi dell’art. 153, comma 15, del d.lgs. 163/2006, relativo alla prima fase del project financing (individuazione del promotore), lo studio c.d. di “pre-fattibilità” e l’inquadramento cartografico;
c) puntualizzava che il ridetto studio, definito “progetto preliminare”, dichiarava di fornire una descrizione generale ma esaustiva dell’intervento in oggetto, sotto il profilo urbanistico e architettonico-strutturale: come tale esso era stato solo impropriamente definito di “pre-fattibilità” (come, del resto, chiarito dalla successiva nota esplicativa del Segretario Generale, prot. Seg. 65 del 20.12.2011, nella quale si affermava che lo stesso fosse, in realtà, da intendersi quale studio “di fattibilità”): e, come tale, in effetti: c1) conteneva una relazione illustrativa del progetto che prevedeva la realizzazione dell’opera, comprensiva di parcheggio interrato su tre livelli per un totale di 435 posti auto e 78 box e di sistemazione di superficie, in un’area di mq 4.700, con la finalità di riqualificare la zona anche per la concessione in uso di parte della medesima; c2) indicava, altresì, la tecnica di costruzione del parcheggio, la quale lasciava asseritamente presumere che al di sotto del terreno non vi fosse alcuna falda acquifera, come del resto confermato dallo studio di fattibilità ambientale, contenuto parimenti all’interno dello stesso documento; c3) recava, infine, il calcolo sommario della spesa di realizzazione dell’opera, distinta in € 5.096.646,51, per il parcheggio, e in € 268.879,09, per le sistemazioni superficiali;
d) aggiungeva che, in data 30.12.2011, aveva proceduto a presentare la propria offerta e, con delibera di Giunta n. 47 del 29.03.2012, era stata individuata quale “Promotore”: dopo di che il Comune aveva, come di prassi, convocato la conferenza di servizi per l’approvazione preliminare, in linea tecnica, del progetto; conferenza che si era conclusa con l’indicazione di linee di indirizzo, puntualmente recepite mediante talune modifiche progettuali;
e) esponeva che il Comune aveva, quindi, provveduto, in data 15.06.2012, ad indire la procedura di gara a rilevanza comunitaria: procedura che si era, peraltro, svolta con la partecipazione di essa sola P.: la quale, pertanto, con determinazione dirigenziale n. 190 del 17.09.2012, era stata dichiarata aggiudicataria e nominata concessionaria per la progettazione, realizzazione e gestione dell’opera: all’esito di che, con successiva delibera della Giunta municipale n. 119 del 24.09.2012, era stata conclusa la procedura e approvato il testo della convenzione;
f) precisava, altresì, che, in data 16.10.2012, le parti avevano stipulato la ridetta convenzione (rep. n. 241309) e – in attuazione della stessa – in data 22.10.2012 il Comune aveva proceduto alla consegna dell’area interessata, con esclusione, peraltro, delle aree occupate da taluni chioschi e da un’edicola, che l’Amministrazione si era, per parte sua, impegnata a trasferire in vista della realizzazione dell’opera;
g) evidenziava, peraltro, che il Comune aveva commissionato un’indagine geognostica (giusta nota prot. n. 2845 del 2.11. 2012) dalla quale, per la prima volta, emergeva l’esistenza di una falda freatica ad una profondità di circa 7-8 m: al che – in presenza di talune discrasie – si era indotta a chiedere l’autorizzazione per l’espletamento di un’autonoma indagine mediante sondaggi: ciò che aveva fatto mercé la commissione di una propria perizia (relazione geologico-sismica), dalla quale, sebbene con risultati diversi quanto a ubicazione e consistenza del terreno, era parimenti emersa l’esistenza della su citata falda;
i) aggiungeva che – a causa dell’esistenza di siffatta falda, mai rilevata in precedenza (e comunque non rilevata nello studio di fattibilità) – ci si era resi conto che il terreno sul quale dovevano essere effettuati i programmati lavori, per una certa parte, presentava una maggiore friabilità: non tale – giusta le risultanze peritali – da precludere la costruzione del parcheggio, ma certamente tale da imporre opere di stabilizzazione diverse e maggiori rispetto a quelle preventivate nel progetto preliminare, con conseguente aggravio di costi: ciò che aveva indotto il Comune, con nota prot. 5931 in data 12.02.2013, a convocare nuova conferenza di servizi;
j) esponeva che, a questo punto, con nota del 03.04.2013, dopo aver espletato le indagini con carotaggi e aver consegnato al Comune la relazione predisposta proprio consulente, aveva rappresentato la necessità di realizzare un pre-scavo per la verifica dell’effettiva consistenza dei terreni ed il comportamento della falda acquifera: ciò che il Comune, con nulla osta prot. 15544 del 02.05.2013, aveva autorizzato;
k) puntualizzava che, nel frattempo, in data 6.07.2013, appurata la diversa consistenza del terreno e la presenza della ridetta falda acquifera e ottenuto il parere dei Vigli del fuoco sul progetto in variante, aveva consegnato al Comune il progetto definitivo completo; progetto che – convocata nuova conferenza di servizi; affidate a soggetto esterno, con determina n. 04/LLPP del 16.01.2014, le opportune verifiche; discusse le relazioni in contraddittorio – veniva approvato con delibera di Giunta n. 67 del 17.04.2014;
l) aggiungeva che – nelle more della approvazione del progetto esecutivo – con propria nota in data 13.08.2014, aveva rappresentato al Comune la necessità di concordare un nuovo piano economico-finanziario (PEF), che tenesse conto dello squilibrio economico registratosi nel corso della progettazione, nonché dei dati emersi in sede di verifica dello stesso esecutivo: dando contestualmente atto della avvenuta elaborazione di diverse ipotesi di intervento che, con nota in data 11.09.2014, a firma congiunta dell’allora Sindaco, del Dirigente dell’Area economico-finanziaria e del RUP, l’Amministrazione attestava in linea di massima condivisibile, contestuale indicazione delle seguenti condizioni di riequilibrio: l1) concedere un incremento del numero dei box destinati ad essere alienati a privati; l2) concedere un incremento della durata della gestione e della convenzione sino al break even point (da definire con il nuovo PEF conclusivo); l3) concedere un prestito al concessionario per la somma di € 2.500.000,00 da corrispondersi in rate semestrali a partire dal quarto mese dalla data di inizio dei lavori per tre anni e da restituirsi nel piano finanziario con applicazione di un tasso di interesse pari all’1% a decorrere dalla data di erogazione di ciascuna data;
m) puntualizzava che – all’esito della nuova interlocuzione – era stato elaborata ed inoltrata, in data 11.11.2014, bozza di apposito Atto aggiuntivo alla convenzione, che prevedeva l’aumento del costo dell’investimento da € 15.730.761 ad € 25.685.368,29, l’aumento della durata della concessione da 26 a 35 anni, l’aumento del numero dei box da cedere in proprietà da 79 a 151 e la conseguente riduzione di quelli a rotazione, nonché la contribuzione del Comune per un ammontare di € 2.500.000,00;
n) evidenziava, a questo, punto che – sopravvenuto il Commissariamento dell’Ente, con pedissequa sostituzione del RUP – erano improvvisamente emerse varie problematiche, posto che – giusta le comunicazioni ricevute dall’Ente – si era acclarato: n1) che mai avrebbe potuto essere iscritta ipoteca sull’area oggetto dell’intervento (dal momento che con atto n. 8716 del 14.12.2011, la stessa era stata acquisita, ai sensi dell’art. 1, comma 434 della L. 311/2004, al patrimonio indisponibile del Comune, con vincolo di inalienabilità decennale); n2) che, per la stessa ragione, si opinava impossibile l’alienazione dei box (legittimandosi solo l’affidamento a titolo di concessione o, al più, un diritto di superficie); n3) che, infine, alcun esborso avrebbe potuto essere effettuato dal Comune, posto che, secondo quanto previsto nel bando, “la realizzazione e gestione dell’opera [avrebbe dovuto essere] interamente a carico di risorse finanziarie private”;
o) chiariva che la conseguente situazione di stallo veniva, da ultimo, risolta con determinazione dirigenziale n. 58 del 18/03/2016 (seguita da ingiunzione al ripristino dello stato dei luoghi), con la quale il Comune aveva comunicato la risoluzione della concessione per l’impossibilità di un riequilibrio economico secondo le proposte effettuate dalla società;
p) aggiungeva che – assumendo che, con l’adozione dei ridetti provvedimenti, l’Amministrazione comunale avesse inteso porre fine alla vicenda negoziale senza assumersi alcuna responsabilità e senza prevedere alcun ristoro/indennizzo per la società (la quale, oltre ad aver sostenuto fino a quel momento spese di progettazione, di scavi, di cantieramento, di studi ecc., poi rivelatisi inutili, non aveva potuto realizzare l’opera e aveva, quindi, perso il margine di guadagno previsto) – si era indotta a notificare, dinanzi al Tribunale civile di Roma, atto di citazione preordinato alla risoluzione della convenzione per inadempimento del Comune e alla condanna di quest’ultimo al risarcimento di tutti i danni subiti, che quantificati in € 6.000.000,00;
q) puntualizzava che, a questo punto, aveva ricevuto comunicazione di avvio del procedimento (prot. n. 3296 LL.PP.) finalizzato all’annullamento della originaria determinazione dirigenziale n. 37 del 27.03.2012 e di tutti gli atti conseguenziali: a presupposto della quale veniva allegata la circostanza che – assunta dal Comune l’iniziativa di conoscere dall’Istituto di credito finanziatore il nominativo del funzionario che aveva sottoscritto l’atto di asseverazione del piano economico e finanziario – l’Amministrazione si era vista partecipare, con comunicazione in data 28.09.2016, la mancanza di concreto riscontro negli atti della Banca;
r) evidenziava che, a fronte di ciò, l’Amministrazione – sulla premessa che il piano economico e finanziario costituisse parte integrante ed essenziale della proposta – aveva avviato procedimento di annullamento d’ufficio degli atti di gara veniva avviato il procedimento di annullamento, conclusosi con determinazione dirigenziale in autotutela n. 207/LL.PP. del 18.10.2016 (adottata a dispetto delle controdeduzioni formulate, in sede contraddittoria, dalla società, la quale aveva vanamente evidenziato e valorizzato, tra l’altro, lo scambio di corrispondenza via e-mail tra il proprio Amministratore unico e la filiale Unicredit di Napoli, la quale, nondimeno, non era stata in grado di fornire il nominativo del sottoscrittore dell’asseverazione del piano economico e finanziario, in ragione del fatto che la richiesta di tale asseverazione era stata seguita dall’Amministratore Unico, Loreno Palpini – recentemente scomparso – che in quel momento si trovava ricoverato in ospedale e non era in grado di parlare per le ragioni esposte in apposito certificato medico);
s) esponeva di aver ritualmente impugnato la determinazione de qua dinanzi al TAR del Lazio, lamentandone la complessiva illegittimità per asserita: s1) violazione e falsa applicazione dell’art. 21 novies legge n. 241/1990, una ad eccesso di potere per difetto di presupposti e di istruttoria; s2) violazione e falsa applicazione dell’art. 153, comma 9, del d.lgs. 163/2006 e dell’art. 96 del d.p.r. n. 207/2010, applicabili ratione temporis;
t) lamentava che – con sentenza n. 3215 del 7 marzo 2017, distinta, in epigrafe – il primo giudice avesse inopinatamente respinto il gravame;
u) impugnava – con atto di appello notificato nei tempi e nelle forme di rito – la ridetta statuizione, argomentandone la complessiva erroneità ed invocandone l’integrale riforma.
2.- Nella resistenza del Comune intimato, alla pubblica udienza del 1° febbraio 2018, sulle reiterate conclusioni dei difensori delle parti costituite, la causa veniva riservata per la decisione.
DIRITTO
1.- L’appello è in fondato e merita di essere respinto.
2.- Importa premettere – alla luce della articolata ricostruzione dei fatti di causa, esposta nella narrativa che precede – che la società ha inteso censurare le determinazioni in autotutela assunte dal Comune intimato, sulla base del plurimo e concorrente rilievo critico:
a) che le stesse fossero state abusivamente adottate oltre il termine ne ultra quem (pari a diciotto mesi) scolpito all’art. 21 nonies della l. n. 241/1990, nella sua attuale formulazione, quale risultante dalla novella di cui all’art. 14, comma 1, l. 11 febbraio 2005, n. 15, di non contestata applicazione, ratione temporis acti, alla vicenda in esame;
b) che, peraltro, non ricorressero gli estremi per il consentito superamento del ridetto limite temporale massimo, che il comma 2 bis della disposizione de qua autorizzerebbe bensì in presenza di “false rappresentazioni dei fatti” ovvero di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”, ma solo allorché – le une e le altre – fossero conseguenti a “condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”: circostanza, all’evidenza, non ricorrente nella fattispecie;
c) che – in ogni caso – dalla mera comunicazione della sede centrale di Unicredit S.p.A.(secondo la quale “non risulta[sse] agli atti […] il rilascio della lettera di asseverazione” circa la fattibilità del piano economico-finanziario a suo tempo presentato, non fosse possibile, con vieto automatismo, desumere la falsità del documento medesimo, soprattutto in mancanza di adeguata indagine istruttoria intesa ad accertarne le concrete cause;
d) che – sotto distinto rispetto – fosse stata pretermessa la necessaria allegazione dei motivi e delle ragioni di interesse pubblico, connotate di concretezza ed attualità e distinte rispetto al mero e valorizzato interesse al ripristino della legalità pretesamente violata, idonee a giustificare – soprattutto nella imposta ponderazione comparativa con i maturati affidamenti – la rimozione degli atti di gara (tanto più in presenza di preventiva iniziativa giurisdizionale dell’appellante, idonea a legittimare il sospetto che si fosse inteso attivare una surrettizia sterilizzazione delle vantate ragioni di danno).
2.1.- A fronte delle formalizzate doglianze, la sentenza impugnata, all’esito di articolata argomentazione, ha, per contro, statuito:
a) che – postulata l’applicabilità del comma 2 bis dell’art. 21 nonies cit., che consente l’intervento in autotutela anche oltre il termine di cui al comma 1 – non fosse necessaria, quanto al presupposto della “falsa rappresentazione dei fatti”, il definitivo accertamento, in sede penale, della commissione di reati (riferibile esclusivamente alla distinta sottoipotesi del mendacio in “dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà”;
b) che – quanto alla completezza istruttoria – le gravate determinazioni fossero idonee a dare adeguata ed esaustiva contezza dei relativi “presupposti di fatto” e delle valorizzate “ragioni giuridiche”;
c) che, sotto il profilo motivazionale, ricorresse una “congrua rappresentazione della comparazione degli interessi coinvolti (a mezzo, tra l’altro, dell’esplicito riferimento all’impossibilità ‘allo stato delle cose’ di ‘una sollecita e corretta realizzazione dell’opera’ ma anche ‘del mancato inizio di lavorazioni’)”.
3.- Il primo profilo viene contestato dall’appellante, sulla base di una difforme esegesi dell’art. 21, comma 2 bis della l. n. 241/1990, alla stregua della quale – sulla (non contestata) premessa che nessun accertamento sulla falsità dell’asseverazione del PEF fosse stato effettuato nella (competente) sede penale – quella delle “false rappresentazioni dei fatti” e quella delle “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false e mendaci” fossero (non meno sul piano dell’interpretazione letterale, che su quello della teleologia della disposizione) fattispecie accumunate e circoscritte dall’essere (entrambe e necessariamente) “effetto di condotte costituenti reato”.
Ciò che sarebbe, tra l’altro, comprovato dal rilievo che – ove mai l’inciso si volesse riferire, come opinato dal primo giudice, alle sole dichiarazioni sostitutive – lo stesso si rivelerebbe ridondante, giacché l’art. 76 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa) le qualifica come reati penali, laddove non tutte le false rappresentazioni dei fatti nell’ambito di un procedimento amministrativo costituiscono reato, soprattutto ora dopo la depenalizzazione della fattispecie di cui all’ 485 c.p., operata dal d.lgs. n. 7/2016.
4.- La doglianza non può essere condivisa e l’interpretazione del primo giudice merita di essere, per contro, confermata.
4.1.- Converrà partire dal rilievo che, nel modificare la previsione dell’art. 21 nonies, comma 1, l’art. 14, comma 1 della l. n.15/2005 ha – innovando, sul punto, la tradizionale regola che rimetteva alla discrezionalità amministrativa, nel rispetto del (sindacabile) canone di “ragionevolezza”, la concreta gestione del limite temporale nella attivazione dei procedimenti di secondo grado in funzione di riesame, facendone con ciò elemento del complessivo e motivato apprezzamento comparativo degli interessi in gioco, variamente ancorati al conflitto tra la ripristinanda legalità dell’azione amministrativa e la concretezza dei maturati affidamenti dei destinatari del provvedimento assunto contra legem – scolpito (peraltro, limitatamente alle determinazioni di matrice lato sensu autorizzatoria e a quelle comechessia attributive di “vantaggi economici”, per le quali è, con ogni evidenza, maggiormente sentita la necessità di salvaguardare l’affidamento dei privati beneficiari e più consistente il consolidamento dei riconosciuti e/o conseguiti diritti) l’astratto e generale termine ne ultra quem di diciotto mesi.
L’opzione normativa, sulla cui opportunità o funzionalità non monta evidentemente riflettere, appare, con ogni chiarezza, ispirata alla logica di una astratta e generale prevalutazione ex lege degli interessi in conflitto: onde – le quante volte il privato abbia visto comechessia rimuovere, anche per silentium, un limite all’esercizio di facoltà giuridiche già incluse, nonostante la verifica di compatibilità con l’interesse pubblico, nel proprio patrimonio di libertà od abbia, alternativamente, conseguito vantaggi o ausili finanziari in grado di impegnare pro futuro la programmazione della propria attività economica – alla Amministrazione è concessa bensì la facoltà di rivedere il proprio operato, le quante volte risultasse assunto in violazione del relativo paradigma normativo di riferimento, ma con lo scolpito e ridetto limite temporale preclusivo, superato il quale il ripristino della legalità violata è, con insuperabile presunzione, ritenuto suvvalente a fronte delle legittime aspettative private.
4.2.- Così individuati fondamento e ratio della previsione, appare evidente che le aspettative in grado di paralizzare, sotto il profilo in questione, l’azione rimotiva dell’Amministrazione devono palesarsi legittime (giusta, ad un di presso, la logica revisionale delle cc.dd. legimitate expectations, ispirata ad analoghe ragioni di giustizia sostanziale): ciò che non accade nel caso in cui la mancata sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento ampliativo della sfera privata prefiguri (non semplicemente un errore, di per sé solo in grado di autorizzare, violata la legge, l’attivazione dell’autotutela, sibbene) un errore imputabile alla parte (e non alla Amministrazione decidente).
Appare del tutto logico, in siffatta situazione – in cui l’Amministrazione sia stata propriamente indotta della misrepresentation dei presupposti necessari al conseguimento del riconosciuto vantaggio – che la parte non possa beneficiare, contra factum proprium, della rigidità del termine imposto all’esercizio dell’autotutela: e ciò in quanto, per l’appunto: a) per un verso, l’affidamento vantato non avrebbe i connotati della meritevolezza di tutela; b) per altro verso, l’immutazione dei dati di realtà sottesi all’azione amministrativa non potrebbe plausibilmente comprimere – di là dal generale e generico limite di complessiva ragionevolezza – i tempi per l’accertamento della verità.
4.3.- È questa, a un di presso, la logica che presiede e sorregge la previsione di cui all’art. 21, comma 2 bis, che – di là dalla sua puntuale e specifica disamina esegetica, di cui subito si dovrà passare a dire – è ispirato al criterio della abusività del vantaggio conseguito mediante il proprio fatto doloso (onde si tratta qui, come vale ribadire, di una ordinaria e ragionevole applicazione del più comprensivo principio che vieta di salvaguardare posizioni di vantaggio conseguite in mala fede: concretando siffatta mala fides – nel consueto senso spiccatamente oggettivo – proprio la “non affidabilità” del fatto, nella sua, altrimenti ordinaria, attitudine a generale legittime aspettative dell’altrui comportamento coerente).
4.4.- Della riassunta logica e della evocata prospettiva esegetica, si trae – ad un primo livello – conferma già dal tratto testuale della disposizione in parola, che richiede:
a) la insussistenza di (presupposti) di fatto (arg. ex art. 3 l. n. 241/1990), non già ut sic ed in quanto tale, ma in quanto oggetto di “false rappresentazioni” (id est – ove si ponga adeguata attenzione all’attitudine deverbale della testa del sintagma, che sottende semantica propriamente agentiva – causalmente imputabile al comportamento della parte);
b) la valenza obiettivamente determinante di siffatta falsa rappresentazione (onde è “sulla base” di essa che il provvedimento ampliativo dovrà essere stato adottato);
c) la (comprensiva) rilevanza del comportamento doloso della parte (onde il provvedimento favorevole deve essere stato propriamente “conseguito” in forza di quest’ultimo, in un senso, perciò, più specifico e pregnante, evocativo di un preciso nesso causale, di quanto per solito e genericamente si ritenga).
4.5.- È a questo livello, allora, che si pone la questione esegetica oggetto di controversia. In effetti, la disposizione in esame autorizza il superamento del termine di diciotto mesi, di cui al comma 1: a) sia in presenza di “false rappresentazioni dei fatti”; b) sia (alternativamente, come fatto palese dall’uso della congiunzione disgiuntiva) in caso di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”.
Fin qui, evidentemente, nulla quaestio, in quanto la norma si limita a valorizzare la (paritetica) rilevanza della (dolosa) prospettazione di insussistenti presupposti di fatto, indipendentemente dalla allegazione (che ne rappresenta soltanto una della alternative modalità di ingresso nel procedimento amministrativo) di dichiarazioni sostitutive e di atti di notorietà.
Il dubbio nasce, evidentemente, dal successivo inciso “per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”: in ordine al quale il dubbio è se debba sintatticamente agganciarsi esclusivamente al mendacio nelle dichiarazioni sostitutive o se debba essere, comprensivamente, riferito anche alle “false rappresentazioni dei fatti” (le quali, allora – ad optare per siffatta esegesi, strenuamente argomentata e difesa da parte appellante – rileverebbero solo in quanto conseguenti alla commissione di reati, oltretutto definitivamente accertati in forza di giudicato penale).
4.6.- È avviso del Collegio – che, sul punto, condivide l’interpretazione dei primi giudici – che sia corretta la prima e più estensiva interpretazione.
Militano in tal senso i seguenti rilievi:
a) sul piano testuale (e, prima ancora, rigorosamente grammaticale e sintattico), il sintagma “per effetto di condotte”, che introduce una causa efficiente e postula, sul piano logico, una predicazione nominale, appare riferibile esclusivamente al predicato (appunto, nominale) “false e mendaci” (con più lungo discorso, reso verisimilmente necessario dalla sottigliezza dell’argomento: il doppio aggettivo, che esprime, per giunta, una endiadi, sottintende di necessità – in quanto seguito da complemento di causa efficiente – un verbo copulativo: come a dire: dichiarazioni [che siano, o risultino o appaiano, et similia]“false e mendaci”, per effetto di determinate condotte causali);
b) se così è (alla luce della postulata correttezza grammaticale dell’enunciato), il predicato è riferibile esclusivamente alle “dichiarazioni sostitutive” (di certificazione o di atto di notorietà), non alle “rappresentazioni” del precedente inciso (che la norma, appunto, postula già “false”, indipendentemente dalla evocata causa di tale falsità): ché – a diversamente opinare – la formula linguistica andrebbe insomma, con scarsa plausibilità ricostruita con riferimento a “false dichiarazioni […] false” (o mendaci);
c) che nella medesima direzione conduce la distinta, per quanto sottile, semantica della “rappresentazione”, a fronte di quella della “dichiarazione”: la prima, come già soggiunto, nominalizza, a differenza della seconda, l’esito di azione propriamente agentiva, che postula un soggetto nel dominio della propria condotta finalizzata: con il che – mentre della “dichiarazione” si rende plausibile e pertinente il riferimento esplicito alle “condotte” causali (qui, qualificate nei sensi della loro concorrente rilevanza de jure poenali) – la “rappresentazione” ingloba, nel suo significato, l’azione consapevole del determinatore;
d) in ogni caso – sul (decisivo ed assorbente) piano teleologico – è del tutto evidente (alla luce delle considerazioni esposte supra, che non vale richiamare) che il legislatore abbia inteso negare legittimità (e meritevolezza di tutela) agli affidamenti frutto di condotte dolose della parte, risultando a tal fine irrilevante la ricorrenza di fatti di reato (il cui richiamo si giustifica in relazione a quelle condotte di falsificazione che – per il mezzo della loro introduzione all’interno del procedimento – sono tipicamente suscettibili di violare disposizioni penali: come dimostrato dalla esplicita salvezza in explicit delle “sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”);
e) che tale sia la corretta interpretazione della norma, discende – del resto – dal rilievo che, a sposare l’alternativa proposta esegetica, la erronea rappresentazione dei presupposti per l’adozione del provvedimento risulterebbe fonte di implausibile e valorizzato affidamento anche quanto fosse intenzionale o dolosa: ciò che fa palese l’anfibologia del riferimento alla falsità: la quale allora: e1) in quanto caratterizzi le (dolose) rappresentazioni di parte, evoca la mera “non verità” (o non corrispondenza alla realtà effettuale); e2) in quanto, per contro, si riferisca alle (qualificate) dichiarazioni – non a caso assunte sotto la responsabilizzante egida della sanzione, penale o amministrativa che sia – evoca propriamente il mendacio (che, non a caso, viene utilizzato nella formula legislativa, con il chiarito riferimento alle dichiarazioni sostitutive).
4.7.- Sotto questo profilo, il – pur articolato – ragionamento dell’appellante (che osserva criticamente non esser dato comprendere perché, nell’un caso, si debba attendere la fine del processo penale e, nell’altro, si possa concedere autonomia di valutazione all’Amministrazione procedente, potenzialmente suscettibile di smentita nella stessa sede penale) prova troppo: essendo, in realtà, frutto della petizione di principio secondo cui l’accertamento della falsità dei presupposti di fatto competa sempre e solo al giudice penale, laddove (limitato ma chiaro) scopo della norma è quello di declinare una diversa tempistica (rigida od elastica) in dipendenza della corrispondenza a verità dei fatti acquisiti in sede procedimentale.
4.8.- In definitiva, sulla scorta delle argomentate premesse, l’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 andrà interpretato nel senso che il superamento del rigido termine di diciotto mesi è consentito:
a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale;
b) sia nel caso in cui l’(acclarata) erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso – non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa rimotiva – si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco.
4.9.- Avendo fatto buon governo, sul punto, degli esposti principi, la sentenza merita di essere, sotto questo profilo, confermata, con reiezione del primo motivo di gravame.
5.- Ciò posto, deve anche convenirsi con i primi giudici nel senso che – una volta che, all’esito delle disposte verifiche, non si sia riusciti a trovare idonea conferma documentale della sottoscrizione del piano economico finanziario da parte di funzionario abilitato dell’Istituto di credito asseveratore – i presupposti per l’aggiudicazione del contratto dovevano ritenersi insussistenti, legittimandone la rimozione in autotutela.
Invero, l’azione amministrativa – tanto più in settori così delicati, come quelli che coinvolgono l’uso di risorse e di danaro pubblico – richiede di essere presidiata da formalismi sicuri, tali da non legittimare neppure il sospetto di irregolarità e/o carenze: onde, in siffatta prospettiva, l’obiettivo e singolare “disconoscimento” operato dall’Istituto di credito (la cui condotta è – o deve, comunque, essere – di prammatica ispirata a particolare cautela nella gestione di pratiche come quella oggetto di controversia) costituiva ragion sufficiente (in difetto di contraria allegazione probatoria in positivo) per ritenere complessivamente carente l’acquisizione procedimentale e non idoneamente validato il piano economico-finanziario che accompagnava il disposto affidamento.
Né può, in contrario, sostenersi – data l’importanza del piano in questione – che lo stesso sarebbe stato comunque irrilevante, una volta prospettatane, alla luce delle premesse in fatto, la necessità di un suo adeguamento: ciò che – in effetti – non toglie che l’aggiudicazione fosse stata, in concreto, disposta sulla base di una incompleta, quanto non in tesi irregolare, istruttoria.
E che, in definitiva, in mancanza della prescritta asseverazione (che, di per sé, costituisce valida ragione di estromissione dalla procedura), non avrebbe potuto che procedersi, una volta aggiudicato il contratto, alla sua postuma rimozione.
6.- Per il complesso delle esposte ragioni, l’appello merita di essere integralmente respinto.
Le spese seguono l’ordinario canone della soccombenza e si liquidano come da dispositivo che segue.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante alla refusione delle spese di lite nei confronti del Comune di Nettuno, che liquida in complessivi € 6.0000,00 (seimila), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1° febbraio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Francesco Caringella, Presidente
Claudio Contessa, Consigliere
Fabio Franconiero, Consigliere
Valerio Perotti, Consigliere
Giovanni Grasso, Consigliere, Estensore
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